Il futuro del turismo attivo è già qui. E l’Italia deve solo salire in sella.

Negli ultimi anni il cicloturismo ha conosciuto un’accelerazione sorprendente.
Complice la crescente sensibilità verso la salute, la mobilità lenta e le esperienze autentiche, il viaggio in bicicletta è diventato simbolo di libertà, sostenibilità e scoperta.

In Italia, come in molti paesi europei, il boom è stato improvviso e potente — figlio anche di quel periodo pandemico che ci ha fatto riscoprire il valore dell’attività all’aria aperta (non vi dico quanto personalmente ho sofferto restando fermo!).
Ora però è tempo di pedalare davvero, insieme.
Non serve riorganizzare: serve organizzare. Perché in Italia siamo ancora all’inizio, e abbiamo davanti un potenziale straordinario.


L’Europa pedala forte.

In paesi come Germania, Francia, Olanda e Belgio, il cicloturismo è ormai una realtà consolidata.
Sono destinazioni che hanno fatto scuola — virtuose, strutturate, con reti ciclabili efficienti e operatori organizzati.
I numeri parlano chiaro:

  • Germania

    • PIL turismo: 355 miliardi €

    • PIL cicloturismo: 45,5 miliardi €

    • Quota: 12,8%

  • Italia

    • PIL turismo: 240 miliardi €

    • PIL cicloturismo: 9,8 miliardi €

    • Quota: 4%

Un confronto che racconta una verità semplice: il potenziale c’è, ma va espresso.
Dal 2019 al 2024, la Germania è cresciuta di circa il 10%, ma l’Italia del 53%. Segno che il vento del cambiamento è già partito, e spinge nella giusta direzione.


Le regioni che trainano la rivoluzione

Veneto, Emilia-Romagna, Trentino e Alto Adige guidano la classifica, con performance sopra la media nazionale.
Sono i laboratori del nuovo turismo attivo: esperienze, accoglienza diffusa, servizi per cicloturisti, e un territorio che si racconta pedalata dopo pedalata.

Eppure, la media italiana resta bassa rispetto ai paesi europei più maturi: 13% contro 4%.
Perché?
Perché i dati sono ancora distorti: interferenze dal mondo sportivo, un settore “ibrido” poco regolato e una presenza non marginale di operatori non professionali.
Il risultato? Presenze in aumento, ma fatturato stagnante.


Il vero nodo: la mancanza di rete

Le amministrazioni pubbliche stanno facendo la loro parte: più ciclovie, più fondi, più strategie.
Il limite non è lì.
Il problema è nel privato, nella frammentazione del sistema.
Mancano visione, collaborazione e management.
Troppo spesso prevalgono campanilismi, individualismi e improvvisazione, che rallentano la crescita del settore.

E allora la domanda è: come intervenire?


La risposta è semplice: fare squadra.

Prima ancora di marketing, prima di immagine, serve rete.
Un network vero, dove le competenze si integrano, dove ognuno ha un ruolo chiaro, dove la collaborazione è il motore del successo.
Solo così il cicloturismo può diventare un’industria organizzata, stabile e professionale.

Serve una cabina di regia che coordini strategie, risorse e flussi.
Servono operatori qualificati — tour operator, guide cicloturistiche, strutture ricettive — che lavorino insieme in modo ordinato e trasparente.
Serve dire basta all’improvvisazione: no guide sportive che fanno tour operator, no tour operator che si improvvisano guide.

Il turismo è un’industria.
E come ogni industria, richiede pianificazione, specializzazione e rispetto dei ruoli.


Organizzazione è la parola chiave.

Organizzare vuol dire impegno, dedizione e visione, ma anche risultati concreti e soddisfazioni professionali.
Il cicloturismo può essere una straordinaria leva di sviluppo economico, culturale e territoriale.
E l’Italia, con la sua bellezza e la sua varietà di paesaggi, ha tutto per diventare la capitale europea del turismo in bicicletta.

Basta solo pedalare insieme, nella stessa direzione.